giovedì 5 maggio 2016

2001: Odissea nello Spazio. Un tentativo di lettura

Nonostante l’assenza di una linearità intesa nel senso classico del termine (inizio, svolgimento, conclusione), e d’altro canto l’abbondanza di forme e riferimenti simbolici, che permetterebbero svariati tipi di interpretazione, il capolavoro di Kubrick non è privo, a mio giudizio, di indicazioni ben precise che il regista fornisce per una adeguata comprensione del suo film.
Innanzitutto è necessario rivolgere l’attenzione verso due elementi fondamentali, che compaiono all’inizio del lungometraggio, in pratica contemporaneamente; questi sono, precisamente, il titolo e la colonna sonora. Cominciamo col primo.
La parola centrale del titolo è “Odissea”, la quale richiama luoghi, tempi e personaggi ben definiti. Come tutti sanno, il poema omerico narra le vicende del re di di Itaca, Ulisse, al tempo della guerra di Troia. Il protagonista, dopo aver conquistato la città nemica, è costretto a vagare in mare per vent’anni, prima di poter fare ritorno nella sua patria. Dopo esser approdato in terre sconosciute, imbattendosi in bizzarri esseri più o meno ostili (ai quali riesce sempre a sfuggire), e dopo aver perduto tutti i suoi compagni di viaggio, l’eroe greco riesce finalmente, da solo, a ritornare nella sua patria e a riappropriarsi di tutto ciò che un tempo era suo. Le avventure di Ulisse sono in realtà un viaggio nelle profondità della natura umana, un viaggio che  tutti i coraggiosi sono costretti ad intraprendere ma non tutti riescono a concludere, alla fine del quale, nella propria solitudine soltanto, ci si può riappropriare di se stessi.
Il secondo elemento, come dicevamo prima, è la colonna sonora. La musica iniziale, imponente e maestosa, (e che esplode nel suo massimo vigore proprio mentre appare in sovraimpressione la scritta “2001: Odissea nello Spazio”) è tratta da un’opera di Richard Strauss che si intitola “Così parlò Zarathustra”; e non può certamente essere un caso che questo sia anche il titolo di una delle opere più famose di Friedrich Nietzsche. Così, già all’inizio del film, il regista ci offre due importanti chiavi di lettura per decifrare la sua opera; e dunque, come è importante avere qualche nozione basilare circa la storia e il significato dell’ Odissea di Omero, allo stesso modo si dovrebbe conoscere, almeno per sommi capi, i punti fondamentali della filosofia di Nietzsche e, in particolare, lo Zarathustra. In questo scritto, il filosofo tedesco tocca, con il suo stile profetico e dionisiaco, diversi temi che si intersecano tra loro, ma per comodità ne citeremo soltanto tre. Essi sono: la critica verso una ragione mummificata, la dottrina dell’oltre-uomo, l’idea dell’eterno ritorno. Per Nietzsche l’oltre-uomo può essere soltanto un individuo coraggioso il quale, dopo essersi liberato da tutti i pregiudizi derivati da tradizione, morale, religione, metafisica (che sono il prodotto di una ragione cristallizzata e morta), può finalmente andare oltre, superare se stesso, e così diventare ciò che realmente è. In questo ritrovarsi, l’oltre-uomo scorge l’assoluto nella propria finitezza, poiché oltre se stesso egli trova ancora e sempre se stesso, infinitamente, senza soluzione di continuità. Nessun Dio, nessun aldilà, nessun progresso: il tempo non si risolve in una dimensione trascendente rispetto ad esso. Ritorna, eternamente, sempre uguale a sé.

Tenendo in considerazione quanto appena detto, è facile intravedere come inizino a delinearsi alcuni punti fondamentali del film. E’ chiaro che tali linee interpretative è possibile tracciarle solamente dopo aver visto il lungometraggio nel suo complesso, ma questa è sicuramente anche la volontà del regista. Anzi, fa parte dello spirito dell’opera stessa. Le due più importanti chiavi di lettura (il titolo e la musica) compaiono all’inizio del film, ma da sole non dicono niente: in tal modo, è possibile capire il principio soltanto per mezzo della fine, e la fine soltanto per mezzo del principio.
La nostra analisi, però, è appena all’inizio; adesso dobbiamo dire qualcosa in modo più dettagliato e per questo volgiamo l’attenzione verso il contenuto delle singole scene. La prima parte del film dura circa venti minuti, è assolutamente priva di dialogo e si intitola “The dawn of the man”; in italiano è stato tradotto, molto correttamente, con “L’alba dell’uomo”, dove “alba” sta per origine, principio, albori. La terra è popolata soltanto di animali che vivono solo d’istinto; l’uomo non si distingue dalle altre bestie, se non forse per la sua debolezza. La ragione, rappresentata da un inquietante monolito nero, irrompe improvvisamente nella storia, come qualcosa di assolutamente “alieno”. Non un lungo processo evolutivo permette agli ominidi di diventare esseri pensanti; bensì un fatto assolutamente straordinario, quasi assurdo, è la scintilla che fa avviare il motore dell’umanità. L’ominide tocca il monolito, comparso misteriosamente dal nulla, e acquista l’intelligenza. E’ nato il pensiero. Quando questo primitivo percuote con un osso una carcassa di animale, capisce che quell’azione non ha un valore rinchiuso nelle sue coordinate spazio-temporali, ma ha invece una portata  universale. L’uomo scopre il concetto, grazie al quale è capace di prevedere, inventare, immaginare; e ne fa subito uso, avendo capito che quell’osso può essere usato come un’arma per abbattere qualunque animale.
L’osso scagliato in aria dall’ominide, ormai uomo-pensante, diventa un’astronave. Siamo di fronte, probabilmente, ad una delle più belle inquadrature mai realizzate nella storia del cinema. Fine della prima parte, inizio della seconda. E’ l’apice della ragione. Tra l’osso lanciato in aria e l’astronave sono passati quattro milioni e mezzo di anni, ma in fondo queste due immagini rappresentano la stessa cosa. Non c’è differenza; sono entrambe il prodotto di una medesima ragione. 2001: la capacità creativa dell’uomo è al suo massimo livello, al vertice. Le astronavi danzano al ritmo di valzer, tutto l’universo risuona della musica dell’intelletto; una musica festosa, potente, piena di vita. Non c’è un’inquadratura di astronavi che non sia accompagnata da queste vivacissime melodie. Non solo: il walzer dà l’idea di una musica geometrica, e la geometria rimanda proprio alla capacità dell’intelletto di astrarre. Di precisa forma geometrica, inoltre, era anche il monolito.
A questo punto, tuttavia, sorge un problema. Il monolito, che avevamo visto presente sulla Terra quattro milioni e mezzo di anni prima, viene trovato sulla luna. Da alcuni dialoghi si capisce che esso non si trova lì per caso: anzi, viene esplicitamente detto che è stato “deliberatamente sepolto”, proprio quattro milioni e mezzo di anni prima. Che cosa può significare questo? Esso inoltre è sepolto sulla Luna; la ragione è forse già evaporata nell’atto stesso del suo sorgere?? E’ plausibile, perché tale è l’idea del nichilismo. Nietzsche e Heidegger non hanno fatto essere il nichilismo, hanno mostrato come l’esito della storia della ragione umana non può che essere il nichilismo. Quindi è probabile che la ragione, la cui essenza è tecnica e violenza, condanni già se stessa al proprio declino.
Infatti, proprio grazie alla ragione, cioè alla tecnica, l’uomo costruisce l’intelligenza artificiale, che è in grado di superare quella umana. Ma l’intelligenza artificiale, proprio perché superiore a quella umana, non sa più cosa farsene dell’uomo e per questo vuole eliminarlo. Tale è infatti l’essenza della tecnica; l’eliminazione dell’umano. Questa rivolta della ragione-tecnica contro l’uomo è rappresentata dall’avaria di Hal 9000 nel bel mezzo della missione spaziale su Giove. Essa, però,  significa molto di più di una semplice rivolta della macchina contro l’uomo, quale viene mostrata, ad esempio, in film come “Matrix” o “Terminator”; qui siamo di fronte a quella che il filosofo Horkheimer chiama “eclisse della ragione”, cioè l’incapacità nichilistica della ragione di arrestarsi di fronte ai propri obiettivi, anche se questi rappresentano un pericolo distruttivo per l’uomo o per il mondo. 
L’essenza della tecnica (che è l’esito ultimo del percorso della ragione) risiede tuttavia proprio nella sua assoluta indifferenza rispetto a qualsiasi criterio etico di condotta; nell’età della tecnica, infatti, l’uomo non dispone di un’etica che possa indirizzare o contenere le sue azioni.
C’è però una via di salvezza, una mistica redentrice che in realtà non redime. All’uomo non resta che procedere “oltre l’infinito”, cioè oltre tutte le certezze, oltre questo mondo, oltre ogni fondamento dell’essere. Ma ormai oltre l’uomo c’è solo l’uomo stesso, in una nietzscheana logica di eterno ritorno, per cui la fine e il principio coincidono come in un circolo.